Condanna al rilascio dell’immobile dopo il decesso del convivente proprietario
27 Aprile 2017
A cura dell'Avv. Elisabetta Loi
La Cassazione afferma, con la pronuncia in esame, che al momento del decesso del convivente proprietario, si estingue anche il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata sull'immobile di cui era titolare l’altro convivente, così che nessuna pretesa può essere avanzata dal convivente nei confronti degli eredi legittimi.
Il caso in esame. L’ex convivente, convenuta in giudizio dagli eredi del suo defunto partner, proprietario di un immobile, per la reintegrazione nel possesso era stata condannata al rilascio dell'immobile detenuto sine titulo, di proprietà della figlia e del coniuge separato, in forza di successione legittima.
La donna aveva chiesto, in via riconvenzionale, che le eredi fossero condannate a risarcirle il danno ai sensi dell’art. 2041 c.c. per avere le stesse tratto vantaggio dall’assistenza medica e le cure prestate personalmente al malato fino al decesso, e per avere sostenuto alcune spese sanitarie.
La domanda degli eredi veniva accolta sia dal giudice di primo grado che dalla Corte d’Appello, ritenendo che il prolungato rapporto di convivenza non attribuisse alla convivente superstite un titolo valido per possedere o detenere l'immobile, e che non si potesse estendere il diritto di abitazione ex art. 540 c.c. comma 2, riservato al coniuge.
La Corte territoriale aveva inoltre respinto la domanda della convenuta sostenendo che le cure prestate al compagno fino al decesso, integravano adempimento di obblighi morali nascenti dal rapporto di convivenza, e inoltre risultava che quest'ultimo avesse provveduto in proprio alle spese mediche e di assistenza.
L’ex convivente proponeva dunque ricorso in Cassazione, adducendo preliminarmente l’estensione crescente della tutela giuridica per la famiglia di fatto, che riceve tutela in base all’art. 2 Cost., in quanto formazione sociale.
La ricorrente rilevava inoltre che un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, partendo dal rapporto di detenzione qualificata dell’abitazione del convivente, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, affermava che l'estromissione violenta o clandestina dall'immobile, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio (Cass., 21 marzo 2013, n. 7214). Tale detenzione qualificata e autonoma legittimerebbe, secondo la ricorrente medesima, il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente.
La Corte di Cassazione, respingendo il ricorso, si è tuttavia espressa in senso contrario, considerando il rapporto di convivenza non idoneo al fine di attribuire un titolo adeguato al possesso dell’immobile né il diritto di abitazione previsto dall’art. 540 comma 2 c.c., riservato dalla legge ereditaria al solo coniuge.
Ne consegue che, in caso di morte del convivente proprietario (e dunque di cessazione del rapporto di convivenza more uxorio), si estingue anche il diritto relativo alla detenzione qualificata dell’immobile e conseguentemente nessuna pretesa può essere avanzata dall’ex convivente nei confronti dei legittimi eredi.
La relazione di fatto tra il bene e il convivente superstite, potrà ritenersi legittima soltanto se: a) il convivente superstite sia stato istituito coerede o legatario dell'immobile per disposizione testamentaria; b) sia costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.
Nessun contrasto, con i principi giurisprudenziali emessi dalla Corte costituzionale e con le nuove norme a tutela delle convivenze di fatto.
La Corte, afferma espressamente che la rilevanza sociale e giuridica che ha assunto la convivenza di fatto, non incide sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile.
Non è applicabile alla fattispecie in esame, la nuova Legge 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, comma 42 (Legge Cirinnà), che attribuisce al convivente superstite soltanto un diritto di abitazione temporaneo (in ogni caso, non oltre i cinque anni), la cui durata varia a seconda della durata della convivenza ed in base alla presenza di figli minori o disabili.